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PETER EISENMAN: CARDBOARD ARCHITECTURE COME PRE-TESTO
31. July 2006 16:14

Pubblicato in ARCHITETTURA

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Sono convinto che la narrazione sia molto più filosofica della stessa filosofia.” Peter Esenman. </i>Nell’ambito della cultura architettonica moderna, la figura di Peter Eisenman (d’ora in poi E.) occupa una posizione di particolare rilievo, non solo per il suo operato in campo professionale, ma soprattutto perché attraverso la lettura dei tratti fondativi e teoretici del suo pensiero è possibile comprendere più approfonditamente alcuni tra gli importanti aspetti dell’architettura decostruttivista. di Vincenzo Russi

di Vincenzo Russi
“ Devo dirvi prima di tutto che non sono più interessato alla semiologia) ma ..alla poetica, e sono convinto che si tratti di due categorie concettuali molto diverse. Allo stesso modo non è più la filosofia a interessarmi, ma la narrazione. Sono convinto che la narrazione sia molto più filosofica della stessa filosofia.” Peter Esenman. </i>Nell’ambito della cultura architettonica moderna, la figura di Peter Eisenman (d’ora in poi E.) occupa una posizione di particolare rilievo, non solo per il suo operato in campo professionale, ma soprattutto perché attraverso la lettura dei tratti fondativi e teoretici del suo pensiero è possibile comprendere più approfonditamente alcuni tra gli importanti aspetti dell’architettura decostruttivista. L’autore si presenta sulla scena mondiale come intellettuale fortemente critico, attento studioso, volto al riscatto linguistico del banale o meglio, di quella frammentarietà solo apparentemente non oggettivabile per la mancanza di una specializzazione formale; e più in generale la sua attenzione è rivolta verso una risemantizzazione del processo progettuale per effetto di un’avvenuta modifica del linguaggio architettonico ad opera di nuove tecniche di comunicazione. E. segue da vicino le ricerche, iniziate nei primi del secolo da Ferdinand de Saussure, sviluppate successivamente da Noam Chomsky suo contemporaneo, le cui ricerche muovono un’ importante questione: I’architettura come “testo”. Riconosciuta tale essa è abilitata sul piano linguistico alla narrazione, ovvero all’aderenza ai temi della fiction sui quali in passato, secondo E., I’architettura è stata univocamente determinata; Rappresentazione, Ragione e Storia come simulazione della realtà, afferma lo stesso E. Ciò che l’autore ci propone, in particolar modo, è l’operazione di distinzione tra finzione e realtà, I’architettura difatti, appartenendo alla sfera del linguaggio, non è più disposta oggi, a narrare una “fabula” ma se stessa in quanto cosa reale e formata dalle sue regole interne, luogo d’invenzione quindi non strumento compositivo. A tal proposito, precisa, - considerando l’architettura come scrittura - essa ci fornisce tutti gli strumenti critici con cui poter persino ri-scrivere un testo citazionale: ’Terragni non esiste/..l’ho inventato io/Terragni sono io” dirà E. in una conferenza (foto. 1). Si tratta del passaggio concettuale che vede la trasposizione di un testo architettonico da signficato a significante, a segno autoreferenziale, processo che da la possibilità di disporre sul piano compositivo di una tecnica che annulli ogni riferimento a segni pre-ordinati, dati a priori, che dia atto invece di un’ architettura che si concretizzi nel suo farsi. La stessa lettura di una sua architettura induce ad un atteggiamento di comprensione di un metodo progettuale che esula dalla semplice applicazione di regole da manuale, bensì alla costruzione di una teoria. In tal senso la realizzazione di un’opera è vista come terreno di critica e la sua validità discende dalla fattibilità, dalla risultante condizione di riscontro con tutti i problemi inerenti alla costruzione; l’architettura ora diviene luogo della teorizzazione ed E. tende ad assumere appunto la posizione di un architetto-costruttore il quale nella realizzazione forma nel contempo teoria, non di “un teorico a cui capita di costruire”. Slegata da idee-funzioni preconcette, l’architettura predilige la narrazione di situazioni destabilizzanti che pongono il fruitore in posizione attiva di fronte all’oggetto di modo che non possa più possederla, bensì interpretarla soggettivamente ogni qual volta che con essa si confronti. Pilastri che non toccano terra, percorsi che si attestano ad una piccola scala, finestre aperte al livello di calpestìo costituiscono sintassi di un architettura che non detta verità, ma di una macchina che propone esperienza. Ma l’esperienza è data, oltre che dalla meieutica, dalla capacità di un oggetto di narrare la storia di un luogo, di registrare tracce vere o fittizie di un passato nascosto: il luogo concorre alla teorizzazione. In termini pratici è inteso come “sterro archeologico”, una sorta di scavo condotto sul luogo allo scopo di portarne in luce geometrie e segni celati dalle continue sovrapposizioni temporali, lo strumento che traduce il concetto è il “tracciato”, griglie che mostrano nella loro complessità tutta la forza generatrice di una storia ancora in atto. Ad esempio l’edificio per abitazione al Checkpoint Charlie a Berlino (fig. 2 e 3 della pagina precedente ), si presenta sia come soluzione alle esigenze abitative della città, sia come elemento commemorativo del luogo (distruzione della città durante la seconda guerra mondiale e la divisione della stessa con il muro). L’edificio è generato dalle tracce storiche impresse sul luogo, i volumi “sono fossili fuoriusciti dal piano orizzontale del terreno” mentre le facciate narrano la loro precedente storia senza che esse divengano monumento o feticcio d’architettura moderna, ma pura forma che trova la sua ragion d’essere dal proprio interno. Lo scavo, quindi, permette di manipolare il luogo al fine di rivelare attraverso la materia costruttiva l’originaria vocazione, la “natura latente” dell’oggetto, cosicché sul piano concettuale “scavando in profondità la griglia rivela al livello più basso la traccia di un muro fittizio del XVIII sec.” risultando come “presenza di un assenza”. L’opposizione presenza/assenza rimanda ad un altro concetto affrontato da E.: il luogo-non luogo. Potremmo riassumere tale apparente controsenso affermando che, in campo architettonico, il luogo sia parte dello spazio oggettivamente determinato dalla presenza di referenti topici, in assenza dei quali esso, non avendo connaturanti, si qualificherebbe come non-luogo. Ebbene, quando E. riceve l’incarico per il Wexner Center (fig. 3, 5, 6, e 7) in merito ad un concorso ad inviti dell’ 83, ci si trova di fronte un programma piuttosto complesso (e consistente): teatro, sale per esposizioni, uffici, etc. Propone una soluzione che vede l’invenzione di un luogo ricavato tra gli interstizi dell’auditorium e del museo: usa una doppia griglia, l’una ruotata di 12 gradi rispetto all’altra, che gli servirà a strutturare lo spazio, mentre dall’operazione di scavo scaturiscono elementi mnestici dei vecchi tracciati ferroviari -riproposti come maglia tridimensionale- ed ancora di antichi bastioni forse realmente esistiti. Il non-luogo viene dotato di una non-architettura quindi, considerando gli elementi di cui è costituita, una maglia-percorso quale corpo spinale, ed i vari ambienti per un totale di 130.000 mq. che alla prima si agganciano. E’ il primo esempio, tra i progetti di E. dell’architettura tra le cose, del “between” come la definirà nei suoi scritti, quale esauriente, ma non ancora formata, tecnica di progettazione, frutto di una lunga sperimentazione sul linguaggio dell’architettura a favore di un’estetica di differenziazione tra cultura moderna e “modernista”. E’ questa costante ricerca, il bisogno di sperimentazione ad indirizzare la sua attenzione verso altre direzioni, difatti è nella metà degli anni Ottanta che alla già assimilata teoria derridiana sul decostruttivismo affianca studi sui frattali, sul DNA e sulla geometria booleana. Sono le operazioni di “incastro, sottrazione e intersezione”, termini basilari di quest’ultima, a guidare il processo progettuale nei successivi lavori, integrandosi di volta in volta alle precedenti tecniche quali il “between”, la griglia e lo sterro archeologico. Per il progetto del Carnegie Mellon Research Center ad esempio (fig. 8), I’università più nota al mondo per l’informatica, quasi a denotarne progettualmente la destinazione, impiega la geometria booleana. Il risultato ottenuto è estremamente interessante, sia per il gioco di incastri tra volumi, che per gli esili elementi, memori di solidi virtualmente presenti, che insieme concorrono all’apparente complessità del progetto. E’ importante notare come egli preferisca, d’ora in poi, concentrare la sua attività di ricerca e divulgazione teorica dall’interno del suo studio (dall’87 Eisenman Architects). Per fare ciò dovrà necessariamente allontanarsi dagli onnivori impegni che ormai, per numero e importanza, assorbono tutto il suo tempo. Si dimette dallo IAUS (Institute for Architecture and Urban Studies) che co-fonda nel ’67, una “tribuna per teorici../..ma anche atelier per aspiranti architetti”, chiude la rivista trimestrale che fonda nel ’73 dal sintomatico titolo “Oppositions” e nel frattempo inizia a tessere relazioni pubbliche che già con il Wexner Center daranno i primi frutti. L’intento è quello di rafforzare e diffondere una metodologia d’approccio all’architettura fondata su una fitta interrelazione fra differenti campi culturali, quale probabile risposta alle esigenze dell’uomo e dei tempi moderni oramai profondamente dominati dalla comunicazione e dalle tecniche ad essa inerenti. Ciò implica la necessaria adesione ai tempi materiai della trasmissione dei messaggi, l’integrazione al processo di formazione della comunicazione proposti dall’era CAD, utilizzata tra l’altro dallo stesso E. Si evince che la velocità, il movimento sia una ulteriore e consequenziale conquista del suo linguaggio costruttivo, un concetto che divenendo tecnica bene esprime il carattere di molteplicità e dinamicità dei suoi lavori. Esso va esibito in tutti i suoi passaggi, esattamente come la società odierna esibisce la sua frenetica attività, senza che nulla venga celato o sintetizzato in un’unica forma finale. Così come per effetto del “Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1911” di G. Balla la figura perde i suoi tratti distintivi, è prodotta sfocatura (blurring), anche in architettura le successive giaciture occupate per traslazione del corpo si sovrappongono sfocandosi. Osserviamo il College di Design di Cincinnati (9, 10, 11 e 12), appare chiara la soluzione adottata: occorre riorganizzare la preesistente costruzione migliorandone l’accesso e dotarla di nuove attrezzature quali sale per mostre, biblioteche, teatri e uffici. Bisogna che la nuova struttura sia in grado di stimolare, che sia capace di mettere in discussione il modello d’insegnamento sin ora praticato, che sia inoltre espressione del luogo e del tempo rispetto ai quali si confronta. A tal fine “i progettisti hanno lavorato insieme agli studenti, ai professori, agli amministratori e agli amici del college per definire un processo evolutivo alla fine del quale ognuno potesse dire l’abbiamo fatto noi”. Affianco all’edificio preesistente, che si snoda sul luogo in linea spezzata, ne viene aggiunto un altro dall ‘impianto più morbido che ospita tutte le attrezzature richieste, ma a questo punto interviene il movimento. I corpi vengono raddoppiati, traslati e ruotati, mentre le varie posizioni assunte nell’operazione vengono mantenute e tracciate secondo la tecnica del “blurring”: il risultato di quest’operazione è di straordinaria entità. Gli interni sono fluidi e mostrano nel contempo tutta la loro capacità di narrazione del gesto che l’ha generati, un dislocamento di volumi, segni, tagli che sembrano dire: anche G. B. Piranesi disegnava un’ architettura reale. Risulta chiaro ora il significato celato nella sua affermazione, quando dice che siamo di fronte ai “limiti della disciplina architettonica”. Ouesti nel momento in cui vengono affrontati, saranno scardinati, ampliati per concorso di apporti esterni che nulla hanno a che vedere con l’architettura, eppure ne costituiscono tratto fondativo e connaturante. In effetti i termini usati da E. come “graft”, “folding” e “scaling” sui quali accentrerà le sue lezioni universitarie, sono operazioni eseguite sugli oggetti al fine di decostruire la loro intima composizione semiologica, riannodandone, risemantizzati, i sintagmi costruttivi in una dimensione altra, quella della poetica. I risultati ottenuti, espressi in architettura e nel saggio ’The End of the Classical” che compone nell’85, integrano le sperimentazioni teoriche inerenti lo spazio anti cartesiano di Deleuze, alle idee di Baudrillard e Culler, mettendo in evidenza nel contempo la multidisciplinarietà del suo etichettato decostruttivismo, di cui significato ed origine in altro capitolo chiariremo. Resta comunque inteso che la nuova tendenza denunci, attraverso i lavori d’ “Oppositions” di E., R. Koolhaas, Z. Hadid, del gruppo Coop Himmelblau, Morphosis ed altri, una reale necessità di revisione del linguaggio architettonico dopo la già conclamata morte del M.M. E’ una tendenza che solo nell’88, con la mostra tenuta al MoMA di New York dal titolo “Deconstructivist”, verrà ufficializzata acquisendo il titolo, con qualche errore d’interpretazione, dalla mostra stessa. Il Convention Center nell’Ohio (fig. 13 e 14), rappresenta un ulteriore esempio sull’importanza, nel mestiere dell’architetto, della divulgazione delle proprie teorie. Chi non ne ha una nozione solo in termini cartacei sa bene che tra le funzioni di un’ architettura v’è quella di essere espressa facendo uso delle risorse economiche e delle norme che a volte potrebbero ridurne “l’impatto teorico”. In questo, come si intuisce, concorre la capacità del progettista nella fattibilità della sua opera, di giungere comunque alla costruzione. E. lo fa senza sminuire la potenzialità dell’impianto teorico, difatti, alle necessità espositive, alle manifestazioni congressuali è data risposta mediante un unico volume sul quale sono innestate singole strutture che ricordano le curve di livello o addirittura degli scambi ferroviari che antecedentemente occupavano l’area, nel complesso propone una nuova forma architetturale che nelle geometrie, nei colori, affermano l’adesione ad una nuova monumentalità tipologica. Quindi non necessariamente l’intero edificio deve essere decostruito pur di concretare una teoria, è possibile farlo operando solo su alcune parti cercando nel contempo un dialogo con l’intero oggetto. Nell’edificio per uffici Koizumi Sangyo a Tokyo (fig. 15 e 16), solo parte del complesso verrà interessato dalle operazioni di decostruzione mediante sovrapposizione, sottrazione e rotazione del volume che corrisponde ad una sezione di tre piani. E’ dall’incontro tra la creatività del progettista con una committenza colta che cerca per la propria sede “una immagine aggressiva, contemporanea” che possa rappresentarla, che allora il progetto diviene sede di massima espressione. Sempre a Tokyo, città che in senso occidentale può essere intesa come un non-luogo per l’assenza di un centro storicamente dato, l’architettura, non potendo riferirsi ad elementi connaturanti, necessariamente fa riferimento ad altri segni. L’edificio Nunotani Corporation Headquarters (fig. 17, 18 e 19) sembra registrare su di sé tutti quei movimenti tellurici che caratterizzano il Giappone (anche il non-luogo concorre alla teorizzazione), tanto che esso risulta minato nella sua staticità e letteralmente si “affloscia”, assumendo l’aspetto più che di un edificio costituito da una struttura portante interna, di un guscio che racchiude labili orizzontamenti riassestati continuamente dalle vibrazioni in atto, mentre gli stessi spazi così conformati offrono visuali eccezionalmente accattivanti ed innovativi. E’ dunque un complessivo ripensamento del metodo progettuale e del concetto d’architettura, quello offerto da E., secondo un atteggiamento cosciente dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo all’interno della società, che coinvolgono il pensiero, il linguaggio e lo stesso stile di vita. E se i valori, i desideri dell’uomo sono mutati, anche la funzione e la simbologia degli spazi in cui i valori si formano ne risultano mutati a favore di una più ampia e profonda significazione della volontà dell’uomo moderno, d’esprimersi attraverso un sunto di arte, cultura e storia che bene rappresenti se stesso ed il tempo proprio d’appartenenza.
Vincenzo Russi







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