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LIVIGNO: IL LEGNO E LA PIETRA IN RICERCA DI REGOLE PER L' IDENTITA' LOCALE
31. July 2006 16:05
(last updated: 26. February 2010 12:31)
Pubblicato in ARCHITETTURA

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Esistono dei luoghi che si possono definire peculiari e dotati di una specifica identità. E la loro peculiarità e la loro diversità colpiscono fortemente i progettisti: io credo che lo studio accurato di ambienti umani altamente connotati sia di grande interesse per affinare le tecniche utili alla identificazione dei loro caratteri, per la conservazione e la continuazione della loro identità anche attraverso il progetto dello spazio pubblico. I luoghi che si manifestano attraverso una percettibile individualità contengono, infatti, da un lato le regole secondo le quali essa si esprime e dall’altro quelle con cui essa potrebbe essere continuamente e nuovamente declinata per i tempi futuri.

di Nardina Leveni

Non solo: il sapere e la metodologia che si formano attraverso questi studi ci consentono di correggere i fattori identificativi di quei luoghi che non nascono fortunati come questi: luoghi molto complessi (tra questi le metropoli) che proprio per il fatto di non possedere una identità direttamente riconoscibile, si lasciano interpretare o “leggere” a posteriori con maggiori difficoltà. Lo studio degli elementi del linguaggio attraverso il quale l’edilizia tradizionale si esprime in Livigno, da un lato ci ha consentito di fare proposte non solo circa la gestione dell’identità di quel luogo e, dall’altro, ci ha portato necessariamente alla formulazione di proposte finalizzate alla continuità e allo sviluppo dell’occupazione locale nel settore edilizio. Risolto il problema di come mantenere, conservare e valorizzare il patrimonio consolidato, si porrà il problema di continuare ad operare per il futuro secondo regole ottimali, affinché il volto di Livigno continui a essere inconfondibilmente quello che è e che è stato. La cultura ufficiale del progetto ha spesso guardato alla questione del territorio in maniera accademica e astratta, pensandolo come insieme di forze e di attività, di flussi e di funzioni, ma dimenticando come alla sua base vi sia una struttura materiale, una trama di fatti concreti, resistenti e persistenti. Queste forme del paesaggio e della terra derivanti, innanzi tutto, dal lavoro, dalla fatica degli uomini, dalla loro lotta per la sopravvivenza. Per questo ogni territorio appare ai suoi abitanti come condizione fisica, come limite, ma anche come riferimento. Esso esprime una cultura e una soggettività: le sue forme sono divenute memoria collettiva e forme introiettate. Infatti, sotto le varie forme assunte nel tempo dalla casa, vive un costante riferimento comune alla cultura materiale originaria e a un archetipo di edificio idealmente rispondente agli usi pratici e simbolici cui l’ambiente domestico è destinato. Poiché la natura è un dato e non uno strumento, l’uomo deve soprattutto assecondarla: il lavoro dei campi non ha di mira il progresso, ma soltanto il mantenimento di condizioni stabili di equilibrio; l’uomo, più che modificare la natura, si propone di contenerne l’arbitrio; la siccità, il maltempo e questo controllo non si manifestano in una tecnica ma in pratiche simboliche: il ritmo delle stagioni, i tempi della semina e del raccolto. Ma l’immobilismo della società montanara, l’inerzia opposta ai cambiamenti, hanno delle ragioni anche più intrinsecamente condizionate dal suo lavoro. Poiché la divisione del lavoro è molto limitata e non c’è quasi specializzazione, viene a mancare quella varietà di esperienze senza le quali gli uomini «non hanno la possibilità di vedere le proprie azioni come alternative ad altre possibilità», sicché «invece di diventare autocoscienti essi ripetono semplicemente i modelli della tradizione perché questi sono i soli che essi possono immaginare» (C. Alexander, Note sulla sintesi della forma, 1967). Ne segue che la modalità del sapere e le forme del lavoro della società rurale condizionano anche la riproduzione degli oggetti e, in particolare, la costruzione della casa rurale, “utensile adatto al lavoro agricolo messo a punto dall’esperienza di chi opera”, a significare l’inscindibile rapporto che essa intrattiene con le pratiche produttive, il suolo su cui insiste e, più in generale, il sistema socio-economico rurale. Nonostante quotidianamente si utilizzi il legno secondo moderne tecnologie, sono ancora numerose le potenzialità e le possibilità di applicazione da scoprire, mentre l’enorme, insostituibile patrimonio costituito dai suoi impieghi tradizionali tende ad essere cancellato. Con la rivoluzione industriale prima e l’avvento del petrolio poi, la stessa riconoscibilità del legno nella vita quotidiana diminuisce: da oltre vent’anni si pone l’urgenza di riconquistare l’antica “amicizia perduta” con il legno e con le selve, che risale alle nostre stesse origini. La stessa storia della tecnologia del legno, forse più antica di quella della pietra, dimostra che la rapidità e la misura del suo sviluppo nelle diverse aree geografiche dovunque ci sia ricchezza di boschi - non è legata alla pura e semplice disponibilità “naturale” del materiale, bensì a complessi fattori umani. Oggi la cultura del progetto delinea un’idea di architettura capace di creare una relazione stretta tra la vita, il materiale, l’ambiente: un’architettura biologicamente più consona a tutte le potenzialità non esplorate della standardizzazione è in grado di corrispondere ad una molteplicità di soluzioni, rompendo con l’omologazione e l’appiattimento “monotecnologico” e “monoculturale” del territorio. Occorrerà reimparare ad “ascoltare” il materiale stesso ripercorrendo la sua storia. La disponibilità delle nostre selve, che già in passato furono meno estese e fitte di quelle dell’Europa centrale e settentrionale, è oggi assai scarsa, avendo subìto un depauperamento violento e prolungato. Così, nel nostro Paese, una moderna tradizione architettonica del legno è pressoché assente e questo materiale rievoca fondamentalmente l’archetipo di casa: infatti, costruzioni in muratura e legno, o integralmente lignee, sono presenti quasi solo nelle valli del grande arco alpino (le “baite” livignasche, i “masi” tridentini, il raccard valdostano). La storia dell’architettura, del resto, dedica pochissimo spazio e modesta considerazione all’edilizia in legno; le tracce sono persino difficili da rinvenire anche in quei Paesi dove questa tecnologia ha raggiunto livelli particolarmente elevati, non solo nell’edilizia minore o residenziale, ma anche nelle opere infrastrutturali. Non a caso, nell’immaginario collettivo l’idea di costruzione storica si identifica spesso con materiali “pesanti” come il laterizio e soprattutto la pietra. E, del resto, in una condizione storica dove è in atto un forte ripensamento sulle condizioni dell’abitare non solo come fatto estetico e funzionale, ma come riappropriazione di nuovi equilibri ambientali, ripensare alla casa in legno e, più in generale, all’uso del legno in architettura e nell’edilizia diventa occasione non solo culturale, ma di riappropriazione di condizioni progettuali e tecnologiche originarie. Nello studio condotto sul Livignasco, il territorio è inteso come costruzione complessa e antica, sedimentata nel tempo; non è possibile distinguere, al suo interno, natura e artificio, tanto essi sono connessi e interrelati. Così un sistema di edifici, di tracciati si identifica alla fine con la struttura stessa del territorio. Materia e forma si uniscono secondo immutabili leggi naturali. Materia e forma sono corpo e anima. Dobbiamo tornare alla concretezza e alla forza di questo rapporto. Ritengo che lo studio analitico debba continuare a costituire per il progetto il medium con il reale. Consapevoli della vastità del problema, si è voluto indagare soprattutto su una materia precisa, ma ci si è interrogati anche sul significato che la casa, il villaggio e il territorio hanno in seno all’esperienza dell’architettura. L’architettura torna, dunque, a mostrarsi nello spessore della propria esistenza storica, nei suoi caratteri collettivi e permanenti, fuori delle mode e delle facili ricerche di novità. La particolare posizione geografica di Livigno (l’orientamento della valle segue una disposizione Nord-Sud) che oggi rappresenta una delle sue fortune turistiche, ha condizionato notevolmente la sua storia. L’insediamento umano fu favorito dalla presenza di ricchi pascoli per il bestiame. Ancora oggi si intravede la particolare trama insediativa del paese: una lunga fila di case completamente in legno, a travi incastrate con stalle e fienili uniti all’abitazione, forma un lunghissimo nastro. Questa singolare disposizione è dovuta al fatto che anticamente le baite (ora trasformate in normali abitazioni) si affacciavano direttamente sugli appezzamenti da coltivare. Attualmente la costruzione di altre arterie (specie nei pressi del nucleo storico), che corrono parallele alla prima, ha fatto sì che questo tipico allineamento sia divenuto meno evidente e il paesaggio abbia perso non poca della sua originaria attrattiva. Questa disposizione orizzontale del paese ha una sua profonda razionalità ed esprime l’intelligente risposta del Livignasco alle sfide dell’ambiente naturale. Nell’architettura livignasca esistono essenzialmente due tipi di strutture perimetrali: quella in pietra (con malta di calce) e quella in legno. Il legno, nella costruzione delle pareti, è stato l’elemento più importante della cultura material-costruttiva livi-gnasca. Anche la pietra è stata, nell’architettura livignasca dell’ultimo secolo, un materiale costruttivo importante. Più o meno disponibile ovunque, è stata utilizzata non solo per gli edifici (muri e fondazioni), ma anche per opere altrettanto importanti nel mondo contadino, quali i muri di sostegno e i muri di confine. Il materiale che veniva utilizzato era quello, naturalmente, di più facile reperibilità: graniti, serizzi, gneiss, calcare, destinati a formare stupende texture. La tecnica dei muri a secco, a Livigno, è stata molto poco utilizzata; gli unici rari esempi li troviamo per la realizzazione di terrazzamenti o muri di confine. La difficoltà a reperire il materiale legante ne ha fatto per lungo tempo la tecnica usuale per la costruzione degli edifici lontani dalle vie di comunicazione, come, per esempio, dei maggenghi e degli alpeggi di alta quota. Con caratteristiche del pietrame simili a quelle del muro a secco si trova la muratura in pietrame legata con malta di calce e sabbia. Il pietrame può, in questi casi, tuttavia mostrarsi con qualche irregolarità per la presenza di legante. Esistono esempi molto antichi anche di questa tecnica. Cambia naturalmente il grado di coesione delle pietre e quindi la stabilità del muro, che può raggiungere, per questo, altezze considerevoli. Gli edifici di abitazione più recenti sono tutti realizzati con questa tecnica. Nei pressi di molti centri abitati esistevano le fornaci dove, una volta recuperata la pietra calcare, veniva preparate la calce, elemento indispensabile per la preparazione della malta. Nei muri più recenti la malta di calce diventa molto abbondante e tende a rivestire completamente ampie porzioni del muro. A Livigno non è mai stato fatto uso della pietra squadrata, o “da taglio”, ma si sono sempre utilizzate le pietre e il ciottolame grezzi. Tali pietre non regolari dovevano essere riempite nei loro interstizi con malta di calce, dando origine a sigillature, a filo delle pietre o rientranti, che favoriscono o meno il chiaroscuro dei muri. Quando il rivestimento in malta di calce diventa predominante e sono visibili solo pietre isolate, si può parlare di tecnica di muratura “a raso pietra” che si trova in numerosi esempi piuttosto recenti. Soltanto nell’Ottocento si sviluppò la tendenza ad intonacare completamente gli edifici, quasi fosse segno di una maggiore finitura ed eleganza delle facciate. Sull’intonaco era inoltre possibile eseguire decorazioni, affreschi, scritte. Anche l’intonaco non è sempre di grana o colore uniforme; il colore varia dal grigiastro al giallognolo, a seconda della malta, in genere argillosa, con cui è assemblato, e della sabbia localmente disponibile. Tutto ciò succede anche per le murature a vista o raso pietra. Nardina Leveni (Seregno, Milano, 1966) si è laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano. È attiva oggi nel campo della progettazione architettonica e dell’interior design: le sue realizzazioni affrontano spesso dei contesti dalle connotazioni ambientali assai sofisticate. Oltre a firmare saggi e articoli per pubblicazioni scientifiche e riviste, è autrice di numerosi progetti grafici e di comunicazione relativi ad altrettante opere. Tra il ’91 e il ’94 ha collaborato con il corso di Progettazione Ambientale tenuto da Alessandro Ubertazzi presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.



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