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SPUGNE DI PIETRA IL RECUPERO DELLE CAVE DELLA PENISOLA SORRENTINA
31. July 2006 15:58

Pubblicato in ARCHITETTURA

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Distese di ulivi secolari, coi loro tronchi nodosi e aggrovigliati, che visua-lizzano la difficoltà per la terra di subire il morso dell’aridità sempre incombente; suoli aspri ma ricchi, domati e recuperati alla coltura della vite; muri a secco, abilmente costruiti e spesso compenetrati da cespugli di perastro, di mirto e di alaterno, da ramaglie di leccio e di quercia spinosa; masserie di varia tipologia, fortificate o munite di semplici accorgimenti per la difesa; rustici dotati di colombaie turrite oppure di ovili, aie, palmenti e frantoi; ville superbe di una aristocrazia legata alla terra e casini per la villeggiatura dei borghesi che imitarono blasonati latifondisti; lievi alture lavorate dalla mano esperta del “faticatore”, l’architetto contadino che utilizza le pietre tolte dal campo ammucchiate nei siti più eminenti (le “specchie”).

a cura di Nicoletta Wojciechowski
Distese di ulivi secolari, coi loro tronchi nodosi e aggrovigliati, che visua-lizzano la difficoltà per la terra di subire il morso dell’aridità sempre incombente; suoli aspri ma ricchi, domati e recuperati alla coltura della vite; muri a secco, abilmente costruiti e spesso compenetrati da cespugli di perastro, di mirto e di alaterno, da ramaglie di leccio e di quercia spinosa; masserie di varia tipologia, fortificate o munite di semplici accorgimenti per la difesa; rustici dotati di colombaie turrite oppure di ovili, aie, palmenti e frantoi; ville superbe di una aristocrazia legata alla terra e casini per la villeggiatura dei borghesi che imitarono blasonati latifondisti; lievi alture lavorate dalla mano esperta del “faticatore”, l’architetto contadino che utilizza le pietre tolte dal campo ammucchiate nei siti più eminenti (le “specchie”). Così è il Salento: quell’estrema porzione orientale della penisola pugliese che divide il mare Adriatico dallo Ionio, terra di impasti sapienti, la cui identità si ricollega ai “paesaggi della fatica” e del lavoro umano. Il carsismo è qui fortemente presente: i corsi d’acqua, che dovrebbero scorrere in superficie, spariscono nelle profondità del terreno fino ad incontrare la roccia impermeabile, creando talvolta paesaggi sotterranei di spettacolare bellezza: grandi spelonche, doline (grotte sul cui fondo si sono creati laghetti), gravine (profonde ferite scavate nel terreno dal passaggio di antichi fiumi) e vore (grandi inghiottitoi naturali di acqua piovana). Alle singolari ed esplicite manifestazioni delle forze della natura si sovrappone un’antica e sapiente azione antropica. Generazioni di coloni e affittuari si sono prodigati nell’edificare un paesaggio domestico naturalmente coerente con quelle logiche del “prelievo” che oggi definiamo (con termini dotti) “sistema delle”: ad esempio, terrazzando i fianchi acclivi delle alture i contadini li hanno protetti e li hanno fatti fruttificare. Percorrendo la litoranea Salentina si possono ammirare ulivi (e persino ciliegi) impiantati entro nicchie di suolo, su gradini, lungo il precipizio dei costoni calcarei. Specie nelle zone più interne si scoprono micro-paesaggi rurali che sono il segno di una costruzione plurisecolare. Nel territorio di Giur-dignano diversi men-hir (o pietrefitte) e dolmen (monumenti funerari) costituiti da un’ampia pietra piana sostenuta da altre verticali, quasi una copertura sorretta da colonne) si ritrovano assieme a masserie e “chiusure” (campi cinti da pietrame a secco). Tali costruzioni, dalle più antiche a quelle più recenti, dimostrano un abbondante e sapiente uso del tufo e delle varie pietre leccesi, che ebbero perfino una commercia-lizzazione (tra ‘800 e ‘900) anche in altri paesi del Mediterraneo. A partire dall’inizio degli anni ‘60 l’industria estrattiva è entrata in una progressiva e grave crisi che, sfortunatamente, permane tuttora. Le cause di questa congiuntura possono essere attribuite a una tardiva pianificazione dell’attività estrattiva a livello regionale. La mancanza di una carta giacimentologica che esprima le vocazioni estrattive del suolo e, soprattutto, la mancata programmazione della ricerca sia in cava che in laboratorio circa le reali rispondenze chimico-fisiche e meccaniche dei materiali estratti e sul loro impiego contemporaneo avrebbero fortemente penalizzato il settore. Per questo motivo l’industria edilizia (nella costruzione del nuovo e anche nel recupero) si sarebbe prevalentemente indirizzata verso materiali artificiali (laterizi, blocchetti in calcestruzzo, ecc.) con caratteristiche prestazionali più costanti e controllabili di quelle tradizionali naturali. Secondo il professor Alessandro Ubertazzi, docente di Disegno Industriale e di Progettazione Ambientale al Politecnico di Milano (1): "le cause di questa congiuntura, per molti versi, assomigliano alla gran parte di quelle attraversate dai litotipi di interesse locale che, pure, con le loro qualità espressive hanno fortemente e quasi univocamente caratterizzato interi ambienti umani. In realtà, al di là di quanto asseriscono i comunicati ufficiali e le statistiche non sufficientemente discusse nelle loro componenti “sotterranee”, la sostanziale disaffezione dall’utilizzo dei materiali naturali locali (anche da quelli oggettivamente “economici” e facilmente impiegabili perfino nel cantiere moderno) dipende da una serie complessa di concause. La prima, la più incisiva e scatenante, è costituita dal giudizio culturale che le genti del nostro Paese hanno emesso negli anni ‘60 optando per la “modernità a tutti i costi”: questa circostanza ha relegato moltissimi ottimi materiali in un “limbo” di insufficiente attualità per cui essi sono stati soppiantati da altri (peraltro non abbastanza collaudati da poter essere considerati davvero affidabili). La irrefrenabile tentazione di sperimentare materiali e tecniche edilizie nuove, anche in nome di una presunta economicità o quanto meno di una maggiore praticità, costrinse molti materiali onesti e utili a una indecorosa abdicazione. Resta da dimostrare se la “colpa” della recessione di questi e di altri settori produttivi ricada davvero insidacabilmente nel settore stesso (che, in questo senso, sarebbe stato quanto meno imprevidente) ovvero risulti da una impietosa forma di concorrenza tra novità e innovazione. Colgo questa occasione per ricordare come lo spiacevole fenomeno sopra descritto abbia ampiamente contribuito nella spersonalizzazione sistematica dei preziosi luoghi della storia del nostro Paese". Purtroppo, le calcareniti (banchi fossiliferi di sabbie calcaree più o meno cementate di origine marina provenienti dalla triturazione naturale di scogliere coralline costituite da spugne, madrepore e gusci di molluschi) non sono state oggetto di studi adeguati per la formulazione di manuali d’uso ne di progetti per la riattualizzazione degli artefatti standard in funzione delle nuove tecniche edilizie: d’altro canto, ancora oggi i materiali vengono scelti in base all’esperienza personale del cavatore, che ne valuta a occhio la qualità, la eventuale presenza di fossili, il colore, il tipo di grana e la qualità della cementazione. Questi fatti contribuiscono comunque a legittimare le perplessità iniziali di molti progettisti e direttori di cantiere, dei costruttori e, più in generale, dell’utenza finale circa l’affidabilità e la durabilità di questi prodotti. Il fatto è che, oltre alle considerazioni già esposte, l’industria estrattiva pugliese è costituita da un tessuto imprenditoriale frammentario, composto da aziende di piccole dimensioni a carattere artigianale e/o familiare: gli operatori, impegnati nell’attività estrattiva di materiali reperibili con sempre maggiore difficoltà, non praticano ancora forme associative atte a fornire maggiori garanzie finanziarie. La limitata disponibilità economica di quelle piccole imprese, la difficoltà a programmare in modo intensivo lo sfruttamento del sottosuolo, a sconfiggere la competitività di altri materiali edilizi, e a contenere la crescita dei costi di estrazione costituiscono i problemi principali che investono il settore. Le conseguenze esplicite di questo stato di cose sono state la cessazione dell’attività di molte imprese di carattere individuale non accompagnata, come speravano molti, dall’accorpamento in cooperative o società meglio organizzate e il graduale, definitivo abbandono dell’attività estrattiva. Sempre più di sovente le grandi distese di ulivi del Salento sono interrotte, a tratti, da fenomeni di degrado: cave dismesse, abbandonate o, peggio, utilizzate come discarica. Oltre alla questione (peraltro non facile da affrontare) di un recupero corretto ed accettabile delle cave e della tutela del territorio, il rischio che si profila oggi è altresì la perdita di un grande patrimonio di esperienze, di professionalità e di manualità che si è tramandato per secoli di padre in figlio, al quale le nuove generazioni sembrano non essere particolarmente interessate La tesi di laurea assegnata dal professor Alessandro Ubertazzi a Maria Chiara Brigante e a Cristiana Carella (2) (brillantemente discussa alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano) si è rivelata in tal senso una buona occasione per rivisitare e rafforzare l’immagine del Salento, da una parte, così ricco di risorse ambientali e culturali e, dall’altra, così difficile da avviare ad una sostenibile modernizzazione: in questo senso il problema delle cave è solo un esempio. Il lavoro di tesi ha innanzitutto analizzato la penisola salentina nella sua identità fisico-ambientale ed antropico-culturale. Per una lettura esauriente delle realtà o delle potenzialità espressivo-architettoniche la tesi ha approfondito le varie tipologie edilizie locali, partendo dall’epoca preistorica sino al Novecento: i vari dolmen, i menhir, i trulli, le pajare, le lamìe, le masserie, le case a corte, i castelli, le torri di avvistamento, i palazzi signorili e le ville. Come afferma il professor Ubertazzi, tale studio, per le indicazioni metodologiche in esso contenute, potrebbe essere definito come una sorta di capostipite di molti altri possibili interventi, non necessariamente appartenenti a questa specifica porzione del territorio nazionale. Egli così ci spiega: - La tesi di laurea che ho affidato alle mie allieve non solo ha costituito l’occasione per affrontare un’analisi puntuale sulle problematiche di questo materiale antico e diffuso in molti suggestivi ambienti del Mezzogiorno ma ha indicato, come spesso auspico, anche un modo per trasformare l’apparente attuale negatività in una reale opportunità futura. L’ipotesi di riutilizzare e valorizzare un comprensorio estrattivo oggi quasi in disuso o scarsamente sfruttato costituisce un progetto che prevede, tra l’altro, una maggiore e più continua utilizzazione del materiale e, comunque, una più ordinata forma di escavazione caratterizzata anche da un maggiore controllo della qualità del prodotto e da una finalizzazione, perchè no?, all’edilizia, anche quella attuale e moderna più esplicitamente favorita attraverso indicazioni di regolamento edilizio e forme adeguate di defiscalizzazione o di rimborso. Non vedo alcun motivo infatti perchè i conci di calcarenite non possano essere impiegati in forme contemporanee e, in ogni caso, non possano essere utilizzati nel recupero degli edifici storici o per edificare immobili in forme tradizionali la dove questa condizione occorre per motivi di continuità espressiva. Personalmente non ho mai creduto che una cava, come quasi tutte quelle che ho visitato fin qui, debba necessariamente diventare una discarica, ne ho mai creduto che una cava debba essere, in un certo senso, reintegrata o risarcita dei materiali a suo tempo sottratti attraverso una sorta di “restituzione” all’ambiente, come molti sostengono che si dovrebbe fare (introducendo così un inganno pericoloso). Sono convinto, viceversa, che certi segni antropici di grande rilievo come quelli lasciati da generazioni di scalpellini sulle pareti geometriche e quasi architettoniche delle cave di calcarenite, possano e debbano restare come testimonianza dell’opera umana pregressa e, semmai, essere in qualche modo preordinati ad utilizzi intelligenti: questi ambienti conserverebbero, così, le tracce più antiche che l’uomo vi ha lasciato come spettacolare fenomeno archeologico-industriale; le parti più recenti delle cave potrebbero essere invece utilizzate come contesto per nuove edificazioni verosimilmente realizzate, tra l’altro, con lo stesso materiale preso in loco. La tesi delle mie allieve ha dimostrato attraverso suggestive immagini che ad Acquarica e Taurianova esiste davvero una possibilità di trasformare utilmente e significativamente questi luoghi ora lasciati all’incultura e all’inciviltà di utilizzi semplicistici. Il procedimento adottato in quel lavoro scientifico-esemplificativo per la utilizzazione di un sistema di cave come quelle esaminate (che, peraltro, costituisce il primo gradino di una vera e propria ipotesi di fattibilità per la valorizzazione dell’intero ambiente salentino) può essere, evidentemente, “esportato” ovunque -. Il progetto di laurea aveva come obiettivo la realizzazione di un comprensorio di residenze, di strutture, di luoghi per lo svago e il divertimento. Esso è stato sviluppato utilizzando la diversa profondità delle cave e la loro connessione mediante scale, passaggi e riempimenti. Per le unità abitative è stata elaborata una tipologia che riprende le caratteristiche storiche della casa a corte, interpretata in maniera moderna. Si tratta di abitazioni con una corte interna, a schiera, su due livelli, abbarbicati sul dislivello della cava. Naturalmente - prosegue Alessandro Ubertazzi - non ci si potrà limitare alla semplice edificazione di residenze necessarie allo sviluppo di un congruo numero di comprensori locali (che così possono preservare parti di territorio per più strategici usi futuri); penso infatti che, in questi luoghi, potranno essere insediate attività umane di tipo produttivo come, per esempio, la coltivazione degli agrumi (che qui risulterebbe protetta dalle intemperie e dal vento grazie al dislivello rispetto al piano di campagna), la lavorazione e la conservazione dei prodotti vitivinicoli, lattiero-caseari e olivicoli. Le vecchie cave potrebbero essere utilizzate come depositi per stoccare materiali, oppure come luoghi nei quali insediare opifici particolari o divenire sede privilegiata di quelle industrie che, collocate oggi disordinatamente sul territorio, degradano sistematicamente e irrimediabilmente i luoghi bellissimi dell’agricoltura locale (tradizionale e non) riducendone soprattutto la qualità paesistica; le vecchie cave potrebbero essere sfruttate ancora con un’intelligente architettura che potremmo, in qualche modo, ascrivere al più ampio filone concettuale che a suo tempo coltivammo presso i nostri corsi alla Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo e tuttora approfondiamo alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano (3), che implicano il re-design dei componenti e delle stesse tipologie in relazione a una maggiore coerenza biologica non solo con il contesto ma in relazione anche a una maggiore bioclimaticità.







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