La pietra d'Istria venne utilizzata in tempi remoti anche per lavori di grande impegno quantitativo e qualitativo: basti pensare alla straordinaria cupola del Mausoleo di Teodorico, un monolite di 230 tonnellate estratto nel 520 dell'era volgare dalle cave di San Nicola, o secondo altre fonti, della stessa Orsera. Vale la pena di sottolineare che quello sarebbe stato il pezzo di maggiori dimensioni estratto dalle cave italiane (e non solo) fino al 1929, quando nel bacino apuano di Carbonera venne prodotto il blocco di 300 tonnellate installato al Foro Italico dopo un trasporto marittimo assai lungo ed impegnativo, tanto da fare invidia a quello che, appunto, aveva visto l'attraversamento dell'Adriatico dall'Istria a Ravenna.
In seguito, il grande sviluppo di Venezia avrebbe dato luogo ad approvvigionamenti lapidei sempre più consistenti, suffragando un vincolo durato per tutta la vita della Serenissima. Ad esempio, nel 1177, Alessandro III Bandinelli, il grande Papa che volle affermare la dignità della Chiesa italiana nei confronti del Barbarossa, venne ad Orsera anche per rendersi conto delle potenzialità della zona, sebbene le spedizioni più consistenti abbiano avuto inizio nel secolo XIII, quando la municipalità di Rovigno concesse agli scalpellini veneziani il diritto di estrazione, con atto formale che reca la data del 1323. Nove anni dopo, lo scultore Leonardo Tagliapietra venne ad Orsera per vedere le cave e scegliere il materiale, come assai più tardi avrebbe fatto Michelangelo a Carrara e Seravezza. Nel 1354, l'architetto veneziano Filippo Calendario, che si era dedicato, oltre che a quella di progettista, anche all'attività di commerciante e trasportatore, effettuò 19 carichi lapidei in luogo dei 20 che aveva contrattualizzato, donde una forte multa governativa, la decisione di partecipare alla congiura contro il Doge Marin Faliero e la tragica condanna alla pena capitale. Altri tempi ed altre consuetudini. Il materiale istriano continuava a registrare grandi successi nell'architettura e nelle opere strutturali, sia per la qualità cromatica e soprattutto per quella tecnologica, essendo oggetto di vivo apprezzamento per i caratteri di resistenza e di durata, in specie dopo cicli di gelività, anticipando il lusinghiero giudizio che nel 1851 ne avrebbe dato John Ruskin nel mirabile trattato The stones of Venice. In poche parole, la competitività era attestata soprattutto dalla resistenza alla salsedine, proprio laddove altri marmi finivano per deteriorarsi rapidamente al contatto sistematico con l'acqua. Le visite ai luoghi di approvvigionamento erano diventate ricorrenti e regolari: dopo quella dello scultore veronese Antonio Rizzo, che prestò la propria opera a Palazzo Ducale, nel 1503 il sovrintendente Giorgio Spavento venne a fare scelte per la chiesa del Santissimo Salvatore, imitato dall'architetto Moro Lombardo per quella di San Zaccaria. Le forniture non si limitavano a Venezia. La pietra d'Istria trovava impiego anche a Bologna nella chiesa di San Giacomo, a Firenze per mano di Donatello, e nella costruzione del primo santuario di Loreto, avviata nel 1571: secondo una testimonianza dell'architetto Giona Boccalino al sole et alla pioggia diventa sempre più bella.
Notizie successive pongono in evidenza che nel 1669 l'attività estrattiva e distributiva aveva assunto dimensioni che non è azzardato definire industriali. Il trasporto dall'Istria a Venezia era assicurato da cento vascelli con almeno 500 marinai: i cosiddetti marani avevano una capacità di carico nell'ordine delle 200 tonnellate e gli armatori dovevano impegnarsi a fare almeno cinque viaggi all'anno. E' dell'epoca, e più specificamente del 1681, il catalogo delle risorse istriane predisposto dal medico e letterato Prospero Petronio, che si era spinto anche a Pinguente ed a Pisino, descrivendo l'ampiezza e la produttività delle cave e confermando l'idoneità competitiva delle pietre d'Istria che stando all'aria s'indurano e resistono ad ogni intemperie del cielo. Non mancarono casi di grande fortuna, come quello di un'altra famiglia Tagliapietra, originaria di Rovigno, che venne ammessa nell'aristocrazia veneziana, le cui origini, d'altra parte, avevano carattere mercantile.
Una commessa di particolare prestigio e rilevanza, durante il secolo XVIII, fu la costruzione del nuovo santuario di Loreto, opera del Vanvitelli. In questo caso, la decisione di utilizzare la pietra d'Istria venne assunta direttamente da Roma ed i primi viaggi ebbero luogo nel 1750, con sbarchi a Recanati od Ancona, secondo la consistenza del trasporto. Lo scarico veniva effettuato su letto di sabbia e le lavorazioni avevano luogo in cantieri contigui, mentre il manufatto era avviato al luogo di destinazione con i tradizionali carriaggi trainati da buoi. All'inizio si ebbero problemi dovuti all'ostracismo di Venezia, che nel 1753 decise di abrogare il divieto all'esportazione dall'Istria. Ancora una volta, a Loreto sarebbero stati apprezzati gli ottimi requisiti del materiale: come affermarono Filippo Pancalli, Francesco Pasquacci e Giovanni Battista Albertini non si era mai avuta una pietra così bella e dura che ai colpi di martello risponde come se fosse un metallo.
Il successo di maggiore prestigio per la pietra d'Istria fu quello nell'architettura religiosa, ma non ebbero importanza minore le opere civili: basti pensare che nello stesso Palazzo Ducale fu il materiale di maggiore utilizzo anche se, come era già accaduto per la Basilica di San Marco, si erano avuti approvvigionamenti significativi di materiali veneti e di marmi colorati provenienti da cave lontane, in specie di Grecia ed Anatolia
Nel 1778, con l'abolizione della contea ecclesiastica, Orsera fu trasferita sotto la sovranità diretta della Serenissima, aprendo nuove prospettive di più intensa valorizzazione delle risorse locali, ma la gloriosa storia della Repubblica era giunta alla fine: meno di venti anni dopo, il trattato di Campoformido ne avrebbe suggellato l'epilogo.
Durante l'Ottocento le pietre istriane, a seguito della nuova dominazione austro-ungarica, trovarono nuove occasioni d'impiego nella grande edilizia imperiale, assieme a quelle del Carso, ma dopo la redenzione del 1918 tornarono al successo anche in Italia: fra l'altro, con la grande commessa del faro della Vittoria a Trieste, dove sono stati impiegati 1.300 metri cubi di prodotto finito, proprio in pietra di Orsera.
Il resto è storia recente: il trasferimento della sovranità a seguito del trattato di pace ha dato luogo ad un lungo periodo di involuzione industriale e di ristagno ma il crollo della Jugoslavia, il ripristino dell'iniziativa privata e l'avvento della globalizzazione hanno restituito alla risorsa lapidea istriana lo smalto di un tempo. Ad ogni buon conto, la maggioranza assoluta della produzione trova tuttora sbocco in Italia, quasi a sottolineare, se per caso ve ne fosse stato bisogno, la permanenza di un forte rapporto civile, culturale ed economico nel quadro di vincoli di cooperazione altamente e logicamente preferenziali.