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MANGIASASS E PISASASS: LA TRADIZIONE DEL MARMO IN LOMBARDIA
31. July 2006 15:40
(last updated: 11. February 2010 12:31)
Pubblicato in ARTE

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Nella Milano dell’ottocento c’erano nelle strade anche tanti mestieranti costretti a farsi conoscere tra le voci e le grida. Gridava "el giazzèe" che portava il ghiaccio, "el sciostrèe" che vendeva la legna, "el strascèe" che comprava gli stracci e le cose vecchie, c’erano poi i saltimbanchi e tra questi i più scalchignati senza arte ne parte, ma una pancia da riempire gridavano: "le chi el paciasass" é qui il mangiasassi.

Nella Milano dell’ottocento c’erano nelle strade anche tanti mestieranti costretti a farsi conoscere tra le voci e le grida.
Gridava "el giazzèe" che portava il ghiaccio, "el sciostrèe" che vendeva la legna, "el strascèe" che comprava gli stracci e le cose vecchie, c’erano poi i saltimbanchi e tra questi i più scalchignati senza arte ne parte, ma una pancia da riempire gridavano: "le chi el paciasass" é qui il mangiasassi.
"Paciasass" per comodità di grido perché quando era il momento dalla bocca passava un po’ di tutto diventando "pacciaveder" (vetro) o "pacciafoegh" (fuoco) che, dopo un'ulteriore bella bevuta di alcol, e la successiva fiammata, trovava ancora la forza di gridare un rauco "Ohei sciori foeura i danèe" (signori fuori i soldi).
Soldi che sui monti intorno alla città altri cercavano di raggranellare come picasass nelle moltitudini di piccole cave attive nelle province di Como, Varese e Lugano perché fino agli anni trenta il confine con la Svizzera per la gente era considerato piuttosto teorico essendo ancora un sol popolo quello del Canton Ticino confluito nella Confederazione Elvetica e quello della Lombardia entrato a far parte della nascente Italia.
In questa divisione incappò anche il marmo che aveva alcune buone cave di materiale in una ristretta area a nord di Varese tra ampie aree verdi, boschi e pietre color crema nelle località adiacenti di Viggiù, Saltrio e, 600 metri dopo il confine, nella svizzera Arzo dove invece affiorano imponenti sedimenti di calcare rosso e dove si trovava tra l’altro una delle poche segheria della zona.


IL MARMO E IL PANE

Come la maggior parte delle attrezzature industriali di allora il meccanismo si muoveva per merito di una ruota idraulica che trovava la giusta quantità d'acqua nel torrente Gaggiolo. Il luogo per lo spumeggiare fu chiamato “Murinell”.
Un mulino un po’ particolare di proprietà della famiglia Allio di Arzo rimasto in esercizio fino all’inizio degli anni sessanta perchè, oltre a muovere da un lato la macina della farina, dall’altro lato trasmetteva movimento ad una sega a sabbia per il taglio dei blocchi provenienti dalle vicine cave in lastre di diverso spessore, un tornio per la fabbricazione delle colonne e un’altra macina per produrre polvere di marmo da unire alla malta in alternativa alla sabbia per la segagione.
Marmo e pane sono significativamente uniti nelle due ali ai lati del cortile destinati al lavoro orientati parallelamente al corso del Gaggiolo.
I rustici alti due piani sono tuttora divisi da un settore più antico con poche aperture, dove erano sistemate stalle e altri locali per le attività rurali. Sotto i porticati un secondo settore in muratura e solette di legno era adibito a segheria del marmo con un’ambiente occupato dal telaio ed altri dedicati alla lavorazione dove forse si trovava il tornio e il deposito del materiale.
Quello più moderno ospitava la macina per marmi e il mulino. Sulla facciata verso il torrente operavano le tre ruote idrauliche. La più grande di diametro 4,5 metri, una larghezza di 0,52 e una caduta d’acqua di 4,50 metri per il marmo. Le due più piccole del diametro di 3 metri, una larghezza di 0,37 e una caduta di m 5,20 per il mulino.
Sulla parte opposta del Gaggiolo é ancora visibile una piccola cava di calcare rosso che dava il materiale da segare.
Sono tuttora visibili una parte degli ingranaggi di legno mentre quelle di ferro ferro dei meccanismi sono state rimosse e vendute dopo la cessazione dell’attività. Rimane solo uno schizzo del meccanismo nella ricostruzione storica fatta da Giovanni Piffaretti, con l’aiuto di Domenico Bernasconi.
Tra le rare immagini è tuttavia interessante soffermarsi su alcuni particolari tecnici come i dispositivi per bagnare le ruote.
Mauro Gilardi ha ripercorso sulla rivista “Terra Ticinese” del 3 giugno 1991 questa lunga storia di questa segheria raccontando del lavoro di Arzo, Besazio, Meride, Tremona comuni della Montagna del San Giorgio uniti in glorie e miserie.
Altrettanto ha fatto in Italia, il comune di Viggiù. Storie totalmente uguali di scalpellini costretti a emigrare, chi a Milano, chi a Zurigo e poi in Germania, in Russia, in America, nei più lontani luoghi del mondo.
Racconti che Giovanni Piffaretti riporta in chiave svizzera ne: Le maestranze d’arte dei paesi della montagna, tra il quindicesimo e il diciottesimo secolo e Beppe Galli e Giuseppe Scavone raccontano in chiave italiana in “Andare e venire, le trafile migratorie.
Storie assolutamente identiche che fanno rivivere, alla luce dei numerosi documenti trovati negli archivi locali e nei luoghi dove si sono svolte.
In questi paesi della Montagna, accanto a un’agricoltura poco generosa, erano fervide, sin dai tempi più antichi della storia, le attività dell’estrazione e della lavorazione della pietra, tanto da poter dire che i loro abitanti traevano sostentamento al la loro vita più dal sottosuolo che dai campi.
Le cave erano disseminate in tutta la regione, entro e fuori dal confine italo-svizzero a Saltrio e Viggiù , a Besazio e Arzo dove si estraeva (e in parte ancora) la macchia gentile, la macchia vecchia, il broccatello d’Arzo).
Dagli scisti bituminosi cavati sopra Meride, si estraeva, con un trattamento a vapore in autoclavi, I’ittiolo, il miracoloso unguento per !a cura di slogature e lussazioni.
Oggi dal lato italiano si sta invece cercando il petrolio. La maggior parte delle cave sono state abbandonate da più decenni, alcune a causa di esaurimento, altre a causa di sopravvenute difficoltà di ordine geotecnico e geologico (come a Saltrio per l’addentrarsi negli strati pieni di cavità della dolomia, materiale per altro poco idoneo nelle costruzioni), altre per motivi legati a difficoltà di accesso viario e a contingenze di ordine finanziario. I blocchi di pietra e di marmo estratti, venivano lavorati nelle vicinanze delle cave da un grande numero di artigiani che si spostavano anche nei cantieri più vicini di Como e Milano. Veniva tutto utilizzato fino allo scarto frantumato e trasformato in calce nelle vicine fornaci (una è ancora esistente vicino alle cave di Arzo) o macinato finemente per ottenere la polvere di marmo, indispensabile nella tecnica dello stucco, e anche nella tecnologia di molte produzioni industriali già attive in Lombardia alla fine del diciottesimo secolo.
Per il ventunesimo secolo tutto questo forma un patrimonio di archeologia industriale, sconosciuto ai più giovani poiché il tempo ha cancellato le tracce più evidenti. Ruote e meccanismi di legno sono scomparsi o ridotti in rovina, parti di metallo furono venduti come ferro vecchio subito dopo la cessazione delle attività delle segherie, le gore i canaletti e le rogge che adducevano l’acqua alle ruote sono in gran parte interrate. Rimangono, benché in parte caduti in rovina, gli edifici e i rustici annessi propri di questi opifici.
Questi resti rappresentano l’unico reperto di un’antica segheria del marmo ancora esistente in Svizzera, un’archeologia che si unisce alla più ampia valorizzazione culturale dell’intera zona del Monte San Giorgio, il monte al centro di un’area a sud di Lugano che arriva fino in Italia nota soprattutto per le sue formazioni fossilifere del Triassico, ossia risalenti a 230-240 milioni di anni fa, ricchi di resti geologici e paleontologici, che a partire dal diciannovesimo secolo sono stati scoperti a migliaia tra cui alcune specie estremamente rare come l’unico grande rettile terrestre antenato dei coccodrilli.
Il monte San Giorgio sarà probabilmente iscritto nel 2003 tra i 690 siti del patrimonio mondiale dell’Unesco da salvaguardare e si integra con il piano di protezione del Murinell studiato dal Municipio di Arzo che propone anche per l’archeologia industriale gli stessi strumenti legislativi dei monumenti storici e naturali offrendo alle autorità svizzere: comunali e cantonali, la possibilità di definire oggetti o zone speciali degni di protezione nell’ambito della pianificazione del territorio o perlomeno non deturparlo, creando così alcune premesse indispensabili per una loro rinascita dall’abbandono.
Già nell’autunno del 1990, l’Associazione Amici del Parco della Montagna del San Giorgio (che si occupa del paesaggio del comprensorio di 8 Comuni), ha contattato Lothar Drack, docente della Schule fur Gestaltung di Zurigo; Lothar Drack, buon conoscitore della regione di Arzo e appassionato studioso della cultura del marmo e della pietra che la caratterizza, si faceva così promotore di un radicale intervento di ricostruzione della segheria del marmo del Murinell.
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L’insegnamento era così suddiviso:
Corso preparatorio - Piano e riquadrature, modanature, lavori elementari da scalpellino, arti architettoniche in grandi dimensioni, accomodatura e tempra degli scalpelli.
Corso di squadratura - Oltre ai precedenti: capitelli cubici, sbozzatura dei capitelli ionico, corinzio, bramantesco, basi e capitelli a modanature, balaustrate, frontoni, fusti rastremati, trafori gotici, ornamenti architettonici - caratteri lapidari, lavori vari, posa in opera.
Corso ornatisti - Ornamenti architettonici, caratteri lapidari. intrecci lombardi e bizantini, intagli per nielli, fiori e fogliami, intagli di stile, capitelli, maschere e grifi, figure ornamentali.
Corso di esecuzione statutaria - Abbozzatura: i punti buoni con la macchina, coi compassi, coi telai, il primo triangolo, punti di calata, i punti ordinari con la macchina. Finitura: Pieghe e ali, ingrandimenti e riduzioni, capelli, maschera, nudo, estremità.
Per regolamento nel laboratorio pratico per lo studio del taglio, dell’intaglio, e della scultura dei marmi e delle pietre erano ammessi solo gli alunni della Scuola che avessero dato prova di capacità e volonterosità. Le lezioni si tenevano dal 15 gennaio al 15 dicembre, con lo stesso orario dei laboratori del paese.
Gli studi e i lavori in marmo restavano di proprietà della Scuola. In caso di vendita veniva devoluto all’alunno esecutore il 50% degli utili netti.
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